Angri. Caso AR. Se vi fosse un principio di sussidiarietà?

“Ci sono i margini per rivedere alcune soluzioni” lo dice il primo cittadino di Angri, Pasquale Mauri, durante il rabbioso, ma composto, corteo di ieri, organizzato dagli operai del Gruppo AR, in procinto di dismettere alcuni siti industriali tra Angri e Sant’Antonio Abate. La speranza, dopo questo nuovo allarme sociale, si sintetizza bene in questo concetto. Bisogna correggere, con solerzia e istanze progettuali concrete, gli errori di una sovrastruttura che negli anni ha usurato il “sistema lavoro” sul territorio. E' vero come dice lo stesso Antonino Russo che “ al Sud si pagano troppo energia, acqua e logistica” per la trasformazione industriale, ma forse è altrettanto vero che nell’ultimo decennio il concetto di produzione industriale nell’Agro è notevolmente mutato.

Un modello da perseguire potrebbe esserci: sul finire degli anni novanta, l’allora gran parte dei sindaci di centro sinistra, e qualcuno di centro destra, che amministravano nei paesi dell’Agro, ebbero la brillante intuizione di creare una società per azioni, mista a partecipazione pubblica e privata, di trasformazione urbana: Agro Invest. Nell’ultimo decennio, tra vicissitudini varie e raggiungimento degli obiettivi, la STU è riuscita nella sua importante “missione” : individuare sul territorio gran parte delle quattro grandi aree industriali per la realizzazione dei famosi PIP, i Piani di insediamenti produttivi, poli industriali che hanno definitivamente cambiato il concetto di “fare industria” in questa valle della provincia salernitana dove risaltano realtà imprenditoriali uniche e di eccellenza, non necessariamente di tipo agro alimentare. Poli industriali con infrastrutture e spazi idonei per la logistica e la produzione tout court. Lo slancio maggiore per la realizzazione della “missione” è venuto proprio dai privati, gli imprenditori che hanno creduto a questo progetto, acquistando i lotti in queste aree “riconvertite”. Mauri è stato uno degli amministratori delegati della STU che insieme a Roberto Marrazzo, allora sindaco di Sant’ Egidio del Monte Albino, l’avvocato Peppe Vitiello, l’avvocato Aldo di Vito, allora sindaco di Nocera Inferiore e Umberto Postiglione, ex sindaco di Angri e oggi Prefetto di Palermo, ne furono i precursori, declinando il concetto di fare impresa con quello della politica delle istanze necessarie sul territorio. Un esperimento di genetica politica coniugata all’ingegneristica industriale che diede vita, nel corso del primo decennio degli anni duemila, alle quattro aree industriali, della “Patto per l’Agro” un’altra interessante realità della strumentazione concertata. In gran parte di queste aree oggi si sta concentrando, seppure con qualche difficoltà, gran parte dell’eccellenza imprenditoriale dell’Agro e dove si registra un alto tasso di livello occupazionale e di impiego di competenze professionali di alto profilo.

Riproposizione, riconversione e lettura delle nuove istanze devono, necessariamente, essere anche alla base di una ripartenza anche per il settore agro alimentare, che non può più reggersi più sul prodotto “pomodoro”, una volta elemento materiale autoctone peculiare, base della trasformazione. La cementificazione e la mancanza di piani regolatori hanno sottratto enormi distese all’area agricola per la coltivazione del pomodoro. La globalizzazione e la genetica non hanno lasciato più spazio alla trasformazione “in situ” del prodotto, diventato materia di importazione regionale e trans regionale. In questi anni di stagnazione al comparto è mancato lo slancio verso “ una rivoluzione conservatrice idonea ad affrontare la sfida che è oggi posta di sostenere la competizione globale coniugando i valori della tradizione e dell’identità dei sistemi produttivi locali con una profonda modernizzazione del concetto di impresa agricola e di organizzazione economica ed istituzionale necessaria ad accompagnare compiutamente le esigenze di sviluppo del settore e dei territori dove esse operano”.

L’industria di trasformazione, agro alimentare, ha perso il contatto con l’originario “sistema di filiera”, non ha retto più al progressivo aumento costo dell’importazione del prodotto, dalle vicine regioni, che offrono un prodotto non corrispondente alle caratteristiche organolettiche del “pomodoro” dell’Agro, coltivato una volta nella fertile Valle del Sarno e del Vesuvio, dove il terreno vulcanico, ricco di minerali, ne esaltava le sue caratteristiche. Un prodotto che originariamente, fin dai primi anni sessanta, veniva coltivato a pochi chilometri dalle industrie, ragionevolmente, sorte in prossimità delle grandi aree rurali, ai margini dei “paesoni” in espansione per il boom edilizio dei primi anni settanta. Un prodotto che oggi, in gran parte, viene importato mediante un costoso trasporto su gomma, accentuando, in maniera marcata, la crisi, irreversibile, del “sistema agro alimentare”.

Nell’ultimo mezzo secolo gran parte dell’economia locale si era adagiato, basato su questo sistema, originando l’indotto della “sussistenza”, un “fordismo” di tipo provinciale che aveva generato, nel ceto medio, una falsa opulenza e status sociali fittizi. Oggi i risultati di questa degenerazione sociale sono, drammaticamente, affiorati agli occhi di tutti. I margini “per rivedere alcune soluzioni” devono essere di indirizzo. E’ necessario, quindi, riconcepire “il contesto competitivo in cui operano le imprese, innovando l’ordinamento normativo, gli strumenti di intervento, l’azione amministrativa sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale; organizzare le filiere e regolamentare i mercati al fine di una equa ricaduta degli effetti economici sulle diverse componenti del sistema economico ed in particolare sui consumatori e sulle famiglie”.
Luciano Verdoliva

Redazione

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